venerdì 14 dicembre 2012

Cielo da neve


Adeline guardò il cielo, nell'uscire da lavoro, e pensò che fosse un "cielo da neve": nuvole di un colore più chiaro, quasi giallo, rispetto alle sere in cui sono cariche di pioggia. Il cielo le dava un'impressione di pienezza quasi surreale, come se si potesse toccare con mano.

Sì, che quello fosse un cielo da neve era incontestabile.

Poi un pensiero si era fatto strada dai meandri del suo cervello, manifestandosi come una domanda: "Da quando ci siamo abituati a pensare che sia normale che il cielo rannuvolato la notte sia giallo o arancione?".

Adeline alzò gli occhi al cielo e spostando l'ombrellino dalla sua vista osservò con attenzione le striature giallastre delle nuvole che riflettevano le luci della città.

Forse il momento in cui tutto era cominciato se lo ricordava, anche se in qualche modo era sfuocato, lontano negli anni.

Quando era piccola il cielo di notte era sempre blu scuro, se lo rammentava bene, anche perché quando le sere di pioggia avevano incominciato a diventare più chiare lo aveva notato e aveva chiesto perché. Le avevano risposto che si trattava di inquinamento. Le particelle di smog e quant'altro sono leggere a sufficienza per salire verso l'altro, ma, dato che sono più spesse del vapore acqueo, riflettono i colori.

Da allora dal cielo Adeline non ha più visto cadere semplici pioggia o neve con cui bagnarsi i vestiti e le labbra, ma particelle di inquinamento che dall'alto di dove erano arrivate ricadevano verso la loro origine terrestre. 

All'inizio l'idea la sconcertava, poi vi si era abituata fino a non farci più caso, come se fosse normale dover andare in luoghi senza fabbriche e senza città per gustarsi una notte nera in serate di pioggia, come se fosse normale non poter più allungare la lingua per assaggiare la neve, come se fosse normale struccarsi la sera e trovare oltre al trucco il nero dello smog sulla pelle.

Adeline abbassò lo sguardo e l'ombrello, pensò che l'abitudine è una brutta bestia e proseguì per la sua strada.

mercoledì 5 dicembre 2012

Intervista a Alessandro Pedretta Kresta per Negazioni: maledetta fanzine senza paraocchi e paraculi



Chi c'è dietro a Negazioni

AlessandroPedretta Kresta, 37 anni. Schiavo delle piramidi e scrittore suicida.

Tu sei la mente che si trova all’origine della fanzine Negazioni, giunta ora al suo secondo numero, ma prima di parlare di questo vorrei rompere il ghiaccio con una domanda semi-personale. Recentemente hai pubblicato un libro di poesie, questanonèpoesia, ti andrebbe di raccontarcelo, ma, soprattutto di spiegarci il perché di un titolo apparentemente così contraddittorio?

Il titolo nasce per poter dissacrare la poesia come antico veicolo per trasmettere emozioni-fotocopia, la poesia che imperversa in rete o in librettucoli che ci propinano la solita lezioncina su amore, sofferenza, fuori piove e mi sento tanto male. Questanonèpoesia anche perché in questo modo non dissacro solo la poesia che sta altrove ma dissacro e sbeffeggio soprattutto la mia, potenziandola, in questo modo, con  quel messaggio che spero sia il più irriverente possibile. Ma non è solo questo. È anche altro: questanonèpoesia perché vuole uscire da quel sentiero solcato da una miriade di soggetti prostrati a una cultura di massa, una specie di cancro di questa società moderna, dove poesia è ogni cosa, dove arte è ogni cosa, una macchia su un foglio, un presentatore che sorride con la sua dentatura equina in tv, uno stronzo in scatola, la pipa che non è una pipa. È un libro dove i miei umori prendono corpo. Ma poi è così stancante parlare di poesia. Si dovrebbe leggerla, non parlarne. Si dovrebbe viverla.

All’interno del tuo percorso personale come si inserisce Negazioni?

Mi sono sempre piaciute le fanzine autoprodotte di controcultura, anarchiche o di musica hardcore che giravano soprattutto negli anni 80/90 e mi è venuta la stramba idea di proporne una che attaccasse la cultura con un altro tipo, appunto, di cultura – la cosiddetta “sottocultura”. La cultura di certi scrittori underground, di certa musica perlopiù ai bordi, di giovani poeti emergenti o semplici narratori di esperienze accomunati dalla voglia di dire, urlare le proprie sensazioni ma relegati soltanto in piccoli siti web, o su facebook dove ho conosciuto il gruppo col quale produciamo questo virus di letteratura e arte dissacrante.

Com’è nato questo progetto editoriale e quali sono i suoi obiettivi?

È nato, come ho detto, incontrando altri ragazzi dalla stessa indole controculturale, poi aggregatici  in un gruppo facebook. Come ogni cosa anche facebook non è solo alcove di cazzate, di idolatria delle frasi ad effetto a aforismi di scrittori morti anni fa. Ogni sistema lo si può capovolgere e usarlo per propri interessi. Si sceglie e ci si sceglie. Inizialmente l’idea era di produrre una fanzine anche cartacea e distribuirla in posti mirati in giro per l’italia dato che la nostra miserevole e dannata squadra di organizzatori si sviluppa in tutta la penisola. Andreas Finottis dal nord est, Mauro Bellicini Brescia, io e Giuseppe Baldassarra di Varese, Ty Elle da Firenze e lo scrittore profano Giovanni Favazza da Catania, ma per adesso ci accontentiamo di divulgarla solo via web. L’obiettivo penso sia  di diffondere la fanzine a più persone possibili e creare sinergie sempre più vaste con nuovi autori, artisti di nicchia che trovano difficoltà nel proporre le proprie cose. Ve lo assicuro, ci sono tanti giovani che sanno dire o presentare la propria arte meglio di qualsiasi noto e riciclato personaggio di fama.

Che cosa distingue, secondo te, Negazioni dalle altre fanzine che vengono divulgate via web?

La nostra fanzine è basata soprattutto da scritti di giovani e esordienti o comunque poco conosciuti autori. Vuole essere dissacrante ma non cedere nell’emulazione dello scritto “maledetto” che manda affanculo comunque e chiunque catalogandosi in questo modo in un certo target. Noi non vogliamo dare punti fermi, non vogliamo entrare in una categoria, noi, come dice il nome della fanzine, neghiamo anche noi stessi, e neghiamo la stessa negazione. Siamo la negazione al quadrato.

Quali sono le tue aspettative – e in generale quelle delle persone che scrivono su Negazioni – rispetto alla realizzazione di una fanzine simile?

Le aspettative penso siano semplicemente di proporre qualcosa di diverso, che rompa gli schemi ma che non rientri in nessuna corrente preconfezionata. Vogliamo essere molesti ma non stupidi, vogliamo essere stupidi ma non illogici, vogliamo essere illogici e anche colti, completamente idioti e i re dei saggi. Tutto e niente. Non ci sono linee progettuali. Siamo una zona temporaneamente autonoma che muta, si trasforma, non ha un nome, sputa sul nome.

Quali sono i tuoi propositi per il futuro di Negazioni?

Renderla una rivista con spunti sempre diversi, a 360°, con spazi più ampi riguardo a musica relegata in piccoli spazi, arte autoprodotta, far conoscere luoghi dove incontrarsi e divulgare un diverso modo di pensare l’arte, il fare, una lotta contro le direttive mediatiche che ci dicono: questo è bello e buono, questo no.
Questo e altro. Negazioni deve essere una creatura con vita propria, che si fa trascinare dagli istinti, dalle piccole manomissioni a un coacervo di nozioni impartite da un certo potere anche culturale che ci sovrasta.


Per dare un'occhiata a tutti e tre numeri usciti e per entrare in contatto con gli autori della fanzine basta accedere alla pagina facebook di NEGAZIONI maledetta fanzine senza paraocchi e paraculi.   

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Anche su Thema.

mercoledì 21 novembre 2012

Quale futuro sognare? Consigli per studenti che hanno un sogno e vogliono realizzarlo

 

Quale studente non è iscritto ad almeno una newsletter di un sito di lavoro sperando che tra le diverse offerte capiti quella adatta a sé? Chi non cerca qui e lì lavoretti per arrotondare un po’ o anche solo non pensa a quello che vorrebbe fare “da grande” terminati gli studi e si chiede come raggiungere il suo obiettivo?

Il legame che gli studenti del nostro tempo hanno con il lavoro è di gran lunga differente rispetto anche solo a quello dei propri genitori, che una volta usciti dall’università o trovavano subito un’occupazione più o meno legata ai loro studi oppure si facevano una grande gavetta e alla fine riuscivano a fare ciò per cui si erano impegnati.

La giovane laureata in Lettere, per esempio, o andava a lavorare in una scuola privata o faceva il durissimo concorso per l’insegnamento nello Stato e dopo averlo superato passava di scuola in scuola fino ad arrivare a lavorare in quella più vicina alla sua residenza. Oggi il problema si pone a priori: per anni non c’è stato modo in Italia di entrare nella scuola, quest’anno fanno un concorso e assegneranno alcuni posti, ma per l’anno prossimo ancora nessuna certezza, anche a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile. Insomma, per chi volesse fare l’insegnante la strada è lunga, impervia e deve esserci di certo una bella motivazione alle spalle per riuscire a realizzare il proprio sogno.

In questa situazione inoltre gli studenti devono articolare bene il proprio percorso, perché il post-laurea non è più garantito. Infatti rispetto al passato non solo è aumentato il numero dei laureati, non solo ci troviamo in una situazione di crisi economica per cui molti di quelli che avevano un lavoro oggi lo hanno perso, ma sono cresciute anche le competenze ricercate nei neolaureati, che comprendono alle volte la ben nota richiesta di “Laurea entro i 25 anni con il massimo dei voti e già due o tre anni di esperienza nel settore”.

Per questo spesso non basta più solo laurearsi con un buon voto finale, ma assumono un ruolo centrale tutte le piccole esperienze che durante il percorso universitario possono aiutare ad arricchire il proprio CV, che più è vario meglio è. 
Lavoretti estivi, collaborazioni con l’università, volontariato o servizio civile: tutto fa brodo per rendere il proprio profilo più interessante, ma tutto deve essere anche ben motivato e chiaro, anche i periodi di apparente inattività, che potrebbero nascondere un appeal inaspettato per il posto di lavoro dei propri sogni.

E allora via, agenda alla mano e che si inizi a infittire il programma delle proprie giornate con stage, organizzazioni di eventi, lavoretti part-time e occasionali senza dimenticare di lasciare un numero dignitoso di ore per lo studio. Ma attenzione, è importante avere i certificati di ogni, seppur minima, partecipazione o lavoro, perché altrimenti il rischio è che senza rintracciabilità l’esperienza venga considerata nulla.

Inoltre il proprio CV deve essere redatto utilizzando il formato europeo, il prototipo di curriculum vitae riconosciuto e accettato in tutta Europa, facilmente scaricabile da internet in tutte le lingue dell’UE. È fondamentale che esso sia regolarmente aggiornato ponendo al primo posto l’ultima attività svolta e che non ecceda le 2-3 pagine. Per avere più possibilità di superare il primo screening e accedere al colloquio, è poi necessario preparare un profilo adeguato al posto di lavoro che si vuole ottenere evidenziando solo le attività svolte e le competenze che si ritengono pertinenti per ricoprire il ruolo desiderato.

Il nuovo obiettivo dei laureati della nostra generazione è quindi quello di diventare dinamici, imparare a gestire la complessità delle situazioni ed essere bravi a curare le relazioni, altra chiave fondamentale per riuscire a farsi strada nel mondo del lavoro, tanto che in Germania si parla di Vitamin-B, da Beziehung (ovvero, relazione), perché alle volte è proprio grazie ai propri contatti che si riesce a trovare un lavoro.

Il quadro è chiaro: dagli studenti viene richiesto molto. È anche vero però che oggi ci sono molte più possibilità rispetto a un tempo. Per esempio viaggiare è facile ed economico, per non parlare del fatto che gli studenti possono usufruire di diversi progetti durante il periodo di studio, come l’Erasmus o gli stage all’estero che per molti sono l’occasione di apprendere una lingua straniera, le 150 ore o il tutorato che permettono di acquisire competenze nuove nel comodo ambiente universitario. 

Il mondo del lavoro è quindi sicuramente molto più complesso di una volta, ma gli studenti oggi hanno tutte le carte in regola per entrarvi con quella preparazione e quella mentalità che gli consentiranno di raggiungere i propri obiettivi e anche di realizzare i propri sogni.
Direttamente da Thema.

sabato 17 novembre 2012

Generazione 2.0: la ricchezza e le potenzialità del nuovo S.T.I.L.E.2.0


Dopo aver letto un commento noioso sulla bacheca di un conoscente su Facebook, aver dato un'occhiata alle ultime notizie su Twitter, aver ammirato le opere d'arte di un artista cinese su Pinterest o aver cercato il profilo di un giornalista su Linkedin mi capita spesso di ripensare a quando qualche anno fa questi mezzi di comunicazione non solo non influenzavano la mia vita, ma proprio non esistevano. Alle volte mi viene da dire, da buona addicted: "Ma come facevamo prima a ricordarci tutte le date di compleanno o a essere informati su tutte le notizie dell'ultimo minuto?". Altre volte vorrei semplicemente lasciar perdere tutto e allora spengo il computer, il tablet e lo smartphone.

Ma è vero che da quel giorno di ormai quasi 6 anni fa in cui mi hanno detto: "Non sei su faccialibro? Guarda che è la nuova moda, devi iscriverti!", ci sono dentro, ma almeno non sono sola. Quello della social communication è infatti un evento generazionale e per questo motivo è quasi inevitabile che chiunque appartenga alla mia generazione non faccia parte oltre che del mondo fatto di carne e di ossa anche di quello fatto di HTML, on line e off line, tweet, pin, like, hashtag ... chi più chi meno.

Ho parlato di generazione, ma in effetti a quale generazione mi sto riferendo dall'alto dei miei 24 anni? Di certo non è la Generazione X della quale ha scritto Douglas Coupland all'inizio degli anni novanta, ma, secondo Federico Capeci, amministratore delegato di Duepuntozero Research, non è nemmeno la Generazione Y, bensì la Generazione 2.0 della quale parla nel suo nuovo libro Generazione 2.0 Made in Italy.  

In questi giorni ho avuto occasione di intervistare Capeci e lui mi ha chiarito che appartengono a questa cosidetta Generazione 2.0 tutti coloro che: 
sono cresciuti immersi nel web 2.0 e che oggi hanno tra i 18 e i 30 anni: sono molto differenti anche dalla più ampia Net Generation, perché i social network, i blog, i forum, etc. hanno permesso la nascita e l’espressione di alcuni valori di base che ci fanno pensare molto in positivo su questi ragazzi. 
E quindi, a tutti gli effetti, ne faccio parte anche io.

Capeci mi ha poi spiegato che il sistema valoriale proprio di questa - della mia - generazione può essere riassunto nell'acronimo S.T.I.L.E.2.0, che sta per: Socialità, Trasparenza, Immediatezza, Libertà ed Esperienza. 
Le generazioni precedenti pensavano in modo differente, avevano un diverso stile e forse anche per questo spesso non riescono a capirli bene: se non hai lo S.T.I.L.E.2.0 o comunque non riconosci che loro lo hanno, come puoi fare il padre, oggi, il politico, il brand…

In effetti, se ci penso, mi rendo conto che il nostro stile, di noi che facciamo parte della Generazione 2.0, è diverso da quello dei nostri genitori e che rispondiamo agli stimoli che ci vengono dal mondo del web in un altro modo, dettato da una capacità tutta nuova di gestire la complessità e la quantità d'informazioni. Viviamo in una prospettiva fatta di frammentazione delle esperienze e dei modi di relazionarsi alla realtà che ci spinge continuamente a rinnovarci e ricrearci, a cercare nuove vie di essere e di esprimerci. Questo movimento continuo che ci appartiene credo non sia altro che un rispecchiamento del mondo in cui viviamo, ma spesso viene interpretato, da coloro che non ragionano come noi, come sinonimo di incoerenza o di incostanza e di incapacità di trovare un equilibrio o punti fermi.

Ciò non toglie che, mi ha precisato ancora Capeci, il nostro futuro, soprattutto qui in Italia, non dipenda completamente da noi, ma sia ancora in mano alle generazioni più adulte. Esso, infatti: 
dipenderà da chi e quanti sapranno capire lo S.T.I.L.E.2.0 e farlo esprimere in ogni sua potenzialità.
Direttamente da MilanoFree.

mercoledì 14 novembre 2012

La scienza che può rendere possibile la pace

 
Come uomo di scienza ho fiducia nell’uomo e sono convinto che, unendo gli sforzi individuali, potremo costruire un mondo di pace. La guerra non esiste per volontà degli individui, ma per volontà dei poteri, ideologici o economici. È tempo che la volontà delle persone conti di più, per garantire a tutto il mondo la pace, vero “patrimonio dell’umanità”.

Umberto Veronesi


Il nome di Umberto Veronesi mi è entrato in testa dopo aver visto una mostra di Science for Peace che ho visto a Roma i primi giorni di gennaio. Si chiamava Ombre di Guerra e si trovava nel museo dell'Ara Pacis, un monumento che non avevo mai visitato e che ho insistito per andare a vedere.

La mostra era molto forte, costituita da una raccolta di fotografie di guerra che documentavano le atrocità dell'ultimo secolo. Di fronte a tale orrore il messaggio di pace promosso da Science for Peace tramite la voce del fondatore, Umberto Veronesi appunto, era altrettanto d'impatto:
Science for Peace, grazie al contributo di uomini di scienza e di pensiero, propone soluzioni per la creazione di una cultura di non-violenza.

La cultura, anche e soprattutto quella scientifica, è uno strumento fondamentale per costruire un mondo fondato sulla pace e sull'armonia. Coloro che fanno parte di Science for Peace, sostenuta tra l'altro da 21 premi Nobel, ne sono convinti.

La scienza porta con sé progresso e, quindi, molte responsabilità, ma quando al progresso tecnico non corrisponde un'altrettanta crescita coscienziale il rischio è che le responsabilità vengano semplicemente lasciate cadere con conseguenze spesso devastanti. Lo sviluppo scientifico deve essere coadiuvato da un percorso di riflessione che diriga le energie degli scienziati verso soluzioni propositive e che possano portare l'uomo a uuna realtà di pace e di solidarietà.


I risultati e la ricchezza di una prospettiva di questo tipo verranno esplicitati nella quarta edizione della Conferenza Mondiale di Science for Peace. Provare per credere.

Direttamente da MilanoFree.

sabato 10 novembre 2012

Perché ascoltare la voce dello scrittore che sopravvive al di là del tempo

 

In questi tempi di crisi in cui l’Europa dubita della propria identità, della propria unità, è compito della cultura ricordarle alcuni fatti imprescindibili. L’Europa rimane un progetto che va interpretato grazie alla cultura. La letteratura è il mezzo più accessibile per superare i dubbi attuali, per riscoprire la nostra identità.
Jean Blot


Quando perdiamo la bussola di fronte a dubbi o difficoltà molto spesso non facciamo altro che ripensare al passato e cercare di ricostruire il nostro percorso per cercare di capire come potrebbe andare avanti la nostra storia. Ognuno, infatti, possiede una propria storia e la sua stessa identità è tenuta insieme dalla capacità di giustificare le proprie scelte precedenti e di argomentare il perché di determinate azioni o reazioni.

Lo stesso discorso può valere anche per l'identità di una nazione o, addirittura, di un intero continente, come l'Europa: è necessario scavare nel passato e nei ricordi, nei racconti e nelle interpretazioni per riuscire ad affrontare una decisione complicata o un periodo difficile.

In quest'ottica, quella letteraria rappresenta una prospettiva privilegiata dalla quale osservare e riosservare la realtà. La voce della scrittore è quasi sempre una voce profondamente calata nel mondo, anche se essa è in grado di sopravvivere al di là di esso, come se fosse fuori dal tempo. 

Questa oltre-temporalità dello scrittore lo rende un ottimo interlocutore in qualunque epoca, perché egli imprime nelle sue parole gli spettri e le potenzialità di un determinato periodo storico, rendendoli immortali.

Sulla scia di questa consapevolezza l'Institut français Milano ha deciso di organizzare la prima edizione del Festival de littérature, che diviene un'occasione per riflettere sul ruolo della letteraturae della scrittura continentale in un'epoca incerta e priva di punti di riferimento come quella attuale.

Mai come oggi risulta essere necessario prendersi un attimo di pausa per riflettere e pensare attentamente alle prossime mosse. Allora perché non ascoltare - oltre alla voce martellante degli economisti che inneggiano alla crisi - anche la voce degli scrittori che si preoccupano da sempre di come fortificare la nostra coscienza di fronte alle difficoltà della vita?

Direttamente da MilanoFree.

Skyfall: un bell'esempio di metacinema


Il tempo della guerra fredda è finito da un pezzo e ormai viene spontaneo chiedersi a cosa possano ancora servire gli agenti segreti ora che sembra non esistere nemmeno più un nemico definito da combattere. Ma quindi, in un contesto simile, com'è possibile che un personaggio ideato oltre 50 anni fa, in un'epoca storicamente e culturalmente completamente diversa da quella attuale, possa sopravvivere ancora oggi? Questa sopravvivenza non è scontata e rappresenta la sfida che viene raccolta dall'ultimo film della saga di James Bond: Skyfall.  

Accade così che nella pellicola ci si trovi di fronte a un eroe d'altri tempi ormai invecchiato e bisfrattato, fuori forma, sia dal punto di vista fisico che piscologico, anche se pur sempre motivato nella difesa dell'amata patria. L'agente 007 rimane un'istituzione, ma è messa in dubbio la sua possibilità di avere un ruolo decisivo nel futuro di un mondo che è cambiato molto in fretta e in un modo molto netto rispetto al suo glorioso passato.


Come si suol dire: "Non è tutto oro quel che luccica" e in questo film, tra una rinnovata profondità psicologica e un'amara autoironia, il regista Sam Mendes gioca con quello che ha in mano e mette in questione fino in fondo la più classica tra le figure dell'agente segreto, indagandone i limiti e il potenziale e riflettendo sul ruolo simbolico che può ancora avere oggi un personaggio che è intrinsecamente legato al mondo del non detto e del presunto, ovvero all'indecifrabilità delle ombre.  

Emergono allora inevitabilmente i dubbi e i compromessi fatti per essere una spia, i rancori e tutte le sofferenze che si è cercato di rimuovere in una vita intera, ma che rimangono comunque impressi nella carne, come la cicatrice di una ferita che ha quasi portato alla morte. Nel James Bond interpretato da Daniel Craig si ritrovano lo charme e l'eleganza, la sua capacità di conquistare senza problemi donne bellissime e le scene topiche (come la classica corsa in cui 007 è inseguito da una fiamma di fuoco e il: "Mi chiamo Bond, James Bond") del noto personaggio, ma tutti i fronzoli scompaiono: le armi vengono semplificate fino all'osso, il "lavoro sul campo" assume un ruolo minoritario in un ingranaggio guidato dalla tecnologia e dai giochi di potere e, in sostanza, il lieto fine non è più assicurato.

Riprendendo la domanda iniziale: cosa resta allora del personaggio storico in questo contesto in cui confini tra bene e male sono sempre più opachi e le certezze si fanno labili e sottili? La risposta non può che essere legata al rinnovamento di uno stile e di un personaggio attraverso un arricchimento di tratti e di caratteri. E del resto, è lo stesso agente 007, che nel momento in cui gli chiedono quale sia il suo hobby, afferma: "La resurrezione".

martedì 6 novembre 2012

La crisi come radice di mutazione d'intenti




Gli ultimi mesi possono essere facilmente riassunti in un'unica paola chiave: crisi. Non si fa altro che parlare di crisi dell'economia, di crisi dei valori, di crisi della politica. Oggi ogni sfera vitale sembra essere permeata dalla crisi, che si fa voce unica del disagio e delle difficoltà esistenziali del nostro tempo. 

Il nostro è un mondo in crisi e noi stessi siamo uomini schizzati perché siamo in crisi, ovvero non abbiamo più certezze, più punti fermi. Ciò che ci circonda sembra aver perso ogni fondamento e ci muoviamo senza posa di situazione in situazioni, come vittime sacrificali di un tempo che quasi non ci appartiene più, come opachi stereotipi di un'immagine chiara di come vivere e di come pensare, di come agire e di come comunicare con gli altri. Il mutamento non è più semplicemente un passaggio di stato, ma è diventato il fulcro dell'esistere stesso, il suo motore immobile.




L'arte contemporanea vige in questo contesto di una dote premonitrice e le sue immagini visionarie rispecchiano i cambiamenti del mondo. Le mutazioni diventano prospettive critiche e utopiche dalle quali osservare la realtà e affrontare la crisi. Per questo l'obiettivo dell'XII edizione di Invideo è quello di raccogliere le migliori testimonianze video che mostrano questa capacità di andare oltre la crisi e di muoversi seguendo il ritmo delle variazioni del reale attraverso l'utilizzo della bellezza e della poesia come armi capaci di contrastare le asperità che ci circondano in questo mondo ricco più di incertezza che di punti fermi.

Direttamente da MilanoFree.

lunedì 5 novembre 2012

Inter(ri)viste: quale ruolo hanno oggi le riviste? #1



 

A cosa servono le riviste oggi? Che ruolo hanno in questo mondo in cui siamo bombardati continuamente da informazioni e notizie?

Queste sono le domande alle quali cercheranno di rispondere gli incontri di Inter(ri)viste organizzati dall'Institut français Italia che ha come obiettivo quello di far emergere la capacità critica di riviste sia francesi che italiane instaurando un dialogo su temi di attualità.

La seconda conferenza si occuperà della questione dello sviluppo sostenibile ponendo una particolare attenzione al modo in cui la città può conciliare la crescita economica, il rispetto per l’ecosistema e il progresso sociale:
Le città, a causa del processo di urbanizzazione e lo sviluppo costiero, la concentrazione e l’espansione urbana, sono direttamente interessate da questa sfida e l’Europa deve essere un modello in questo senso. Questo implica un ripensamento dell’habitat e dei trasporti e, più in generale, strategie urbane che tengano conto delle esigenze di sviluppo sostenibile, garantendo ai propri abitanti condizioni di vita in grado di soddisfare i loro bisogni e aspirazioni, preservando il fragile equilibrio dell’ecosistema.
Guidati dallo spirito critico delle riviste "Futuribles" e "Polis" saranno le voci di esperti a condurre questo dialogo che non riguarda solo il modo di vivere di alcuni, ma di tutti.

Direttamente da MilanoFree.

venerdì 2 novembre 2012

Contro la pigrizia domenicale

 

Quando inizia a fare freddo la voglia di stare in giro un po' si eclissa, soprattutto la domenica, che dovrebbe essere il giorno consacrato al riposo. 

Ma è anche vero che la domenica può essere bello rifocillarsi trascorrendo il pomeriggio in un bel posticino al calduccio. Se è ricco di eventi e di bancarelle magari è anche meglio.

Elita fa questo e altro, organizzando per noi pigri e sfaccendati della domenica una giornata piena di colori e di musica, di stimoli e di oggetti alla moda.

Il Sundaypark trasforma la noia in attività e movimento e permette di vivere la domenica in modro diverso.

Almeno una volta si può provare.

Direttamente da MilanoFree.

mercoledì 10 ottobre 2012

Giornata mondiale della salute mentale: uniti contro lo stigma sociale


Per l'uomo è normale avere paura di ciò che non conosce. Per questo motivo l'uomo ha cercato, sin dall'antichità, di controllare tutti i fenomeni che non comprendeva e lo ha fatto prima con la magia, poi con la mitologia e, infine, con la tecnologia. 

Tramite questo percorso in crescendo l'uomo ha acquisito un grande potere che spesso viene interpretato come il potere di decidere della vita e della morte. L'uomo si è fatto giudice del mondo in quanto suo possessore e ha stabilito i criteri per una vita sana e normale. Non rispettare questi criteri significa non essere né sani né normali, perché, come sostiene Cartesio, chi non è sano o normale è malato e quindi portatore di percezioni errate che lo ingannano sulla realtà (il dolore devia i sensi secondo il filosofo). 

Si potrebbe semplificare e dire che il malato, secondo questa concezione, non è capace "né di intendere, né di volere", ovvero non è in grado di gestire il proprio libero arbitrio come si dovrebbe, perché, in quanto ingannato dai sensi, non ha punti di riferimento reali.

Questo discorso potrebbe valere per tutte le malattie, ma ha di certo un impatto particolare se connesso con le malattie mentali, che sono quelle che maggiormente mettono in difficoltà il mondo percettivo della persona, poiché ne mescolano le emozioni, ne complicano le sensazioni e liberano da ogni inibizione gli equilibri dell'umore e la stabilità dei sentimenti.


Io, però, con Cartesio e le sue semplificazioni non ci voglio stare.

Preferisco di gran lunga ascoltare le parole che Thomas Mann scrive in Der Zauberberg:

L'interesse per la malattia e per la morte è sempre e soltanto un'altra espressione dell'interesse per la vita

Affrontare il tema della malattia non significa sezionare un discorso in parti più semplici come se si dovesse risolvere un problema di matematica. La malattia fa parte della vita e non ha meno dignità di essa e per questo non si può pretendere di banalizzarla con blande semplificazioni.La malattia, così come la vita, non è un fenomeno, una cosa o un'idea, ma è una realtà e spesso una realtà difficile, dolorosa e, soprattutto, inspiegabile. Di fronte a essa non si può fuggire, non esistono scorciatoie, perché la malattia quando arriva, come la vita, non ha pietà, ma è implacabile.

I malati mentali, come ogni malato, non sono semplicemente malati di fronte ai quali si può dire "per fortuna non è successo a me", ma sono persone che come tutti affrontano le sfide di cui la vita gli ha fatto carico. 

Ognuno affronta la vita con i mezzi che possiede e che si sia malati o sani da questo punto di vista non vi dovrebbero essere differenze. Eppure per un malato mentale la vita spesso è più dura, perché oltre alle sfide della vita deve anche affrontare tutto un apparato sociale che lo pone su un gradino pià basso rispetto agli altri sia ai cosiddetti sani che ai "veri" malati (di cuore, di cancro, di diabete, ...), e questo complica la sua vita principalmente in due modi. In primo luogo, perché lo stigma sociale nei confronti della malattia mentale rende difficile l'accettazione della malattia e l'accesso alle cure per il malato stesso. In secondo luogo, perché molte persone non comprendono che una malattia mentale non è diversa da una qualsiasi altra malattia e tendono a sminuire i sintomi e i problemi che la malattia mentale, come del resto ogni malattia, porta con sé. In una situazione simile il malato è come se fosse sempre costretto a giustificarsi, anche se avrebbe più bisogno di comprensione.



Cosa si può fare in una situazione simile?
Bisogna iniziare a non costringere più il malato a cercare di giustificarsi per una malattia che non ha cercato o voluto, ma che gli è piombata addosso inaspettatamente. Bisogna accettare il fatto che si possa essere malati anche di mente senza abbandonarsi a considerazioni superficiali o offensive. Bisogna comprendere che una persona è la sua malattia solo nel momento in cui si decide di vederla così, perché ogni malato è prima di tutto una persona con emozioni e sentimenti.

Quello che si deve fare è essere uniti contro lo stigma sociale che esiste nei confronti delle malattie mentali, solo in questo modo si potrà garantire una vita migliore non solo ai "malati", ma anche ai cosiddetti "sani".