mercoledì 1 maggio 2013

Come festeggiare il primo maggio: "Il settimo giorno"



Oggi per festeggiare il primo maggio vi consiglio una lettura, ovvero la pubblicazione de Il settimo giorno. Concorso di racconti brevi su lavoro e professioni nell'età postmoderna, un concorso indetto dalle Acli della Provincia di Brescia per avere uno spaccato sulla realtà lavorativa in quest’epoca di crisi. 

Ieri, proprio la vigilia della Festa dei lavoratori, c'è stata la premiazione del concorso che ha visto una grande partecipazione con circa 300 racconti per 225 autori sparsi per tutta Italia.

I 33 racconti che le Acli hanno scelto di pubblicare (sui quasi 300 pervenuti da tutta Italia) descrivono storie e realtà diverse, però tutte unite da uno sfondo comune che racconta le  difficoltà di un periodo storico in cui molti sogni rimangono nel cassetto e ci si scopre troppo spesso sull'orlo del baratro, dal quale si può cadere o risalire, a seconda del valore che si impara a dare alla speranza

Se volete leggere la pubblicazione basta cliccare sull'immagine per scaricare gratuitamente l'ebook (in formato epub) del libro. Nel libro troverete anche un mio racconto, Deformazione professionale, che è stato riconosciuto tra i meritevoli per la pubblicazione sul volume.

Buona lettura e buon primo maggio! 

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venerdì 26 aprile 2013

#Epinovel01 #raccontiditreno: "Progetti"


Ogni giorno è fatto di tante piccole cose, come sguardi, situazioni, poche parole ... eventi più o meno definiti che lasciano lo spazio per immaginare e sognare, correre in avanti nel tempo e vivere una nuova avventura. 

Il mio racconto pubblicato su Epinovel, Progetti, parla di questo, ovvero della capacità di immaginare che ognuno possiede e che permette di andare al di là del dato di fatto e di perdersi in un mondo di sogni. 

Ma occhio, alle volte sognare troppo rischia di lasciare che la realtà proceda da sola...

Giunto il treno salirono sullo stesso vagone e lei si sedette in uno dei due posti di fronte a lui: lei aveva scelto di sedersi lì, dove c’era lui, oppure era stato un caso?

Se avete voglia di leggere il racconto per intero basta andare sul sito di Epinovel, piattaforma di social writing che ha iniziato dal primo di aprile la sua attività come spazio di condivisione di idee e racconti, sempre legati ad un epicentro letterario. Questo mese il tema scelto dalla redazione è stato #raccontiditreno

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domenica 14 aprile 2013

La lampada Arco di Achille Castiglioni



In questi giorni mi sono ritrovata a dover scrivere un pezzo in occasione del Salone del mobile di Milano, ovvero la biografia dei fratelli Castiglioni. Dei tre fratelli il più noto è Achille Castiglioni (1918-2002), designer milanese che ha cambiato il significato del disegno industriale e di cui molte opere sono conservate nelle collezioni permanenti di importanti musei di tutto il mondo (un esempio su tutti: il MoMa di New York).
Premetto che non sono una grande esperta di design e che tutto quello che so deriva dal Fuorisalone, dalla sezione dedicata al design del Centre Pompidou di Parigi e dalla mia curiosità per oggetti di forme e colori particolari che mi spinge alla ricerca di mercatini, negozietti e aree dei grandi centri commerciali ad essi dedicate.

Achille Castiglioni però fa un po' caso a sé perché lo conosco da diversi anni grazie alla mia prima coinquilina, che studiava Architettura al Politecnico di Milano. 

Un giorno delle nostre prime settimane in quel di Milano stavamo andando a fare la spesa e lungo la strada, verso il supermercato, abbiamo scoperto un negozio di lampade davvero bello e, stando a quello che lei mi disse, di design. Fra le molte lampade esposte me ne indicò una in particolare: una lampada dallo stelo arcuato con una base di marmo con un buco circolare che lo attraversava. 

Non era la prima volta che vedevo una struttura simile, ma lei disse che quella era la lampada Arco di Achille Castiglioni e che si capiva che era proprio quella e non un'altra, una copia o un'imitazione, per la base di marmo. La mia coinquilina era stata allo Studio museo del designer in piazza Castello con l'Università e lì le avevano spiegato che Castiglioni aveva pensato il foro che attraversa la base di marmo come quell'elemento che consente, infilandoci un bastone, come il manico di una scopa, di spostare facilmente la lampada da un'altra parte. Mi aveva spiegato, inoltre, che quella lampada da terra aveva la particolarità di permettere di avere il punto luce direttamente sopra il tavolo e che quindi era la lampada perfetta per un architetto. 

Oggi, ogni volta che vedo una lampada con la struttura ad arco, penso a Castiglioni e alla questione del copyright, ai suoi disegni industriali che non erano solo il progetto per oggetti, ma per vere e proprie opere d'arte, e, soprattutto, che non vedo l'ora di avere una casa mia per arredarla e porvi anche una lampada come quella.


venerdì 12 aprile 2013

Le buone notizie come prospettiva di cambiamento



Quando la normalità è data dal male, il bene diventa notizia.

Così si conclude l'articolo Su Internet gli eroi nascosti delle buone notizie di Giangiacomo Schiavi sul Corriere della Sera di oggi, che annuncia la nascita di una nuova rubrica su Corriere.it marcata dall'hashtag #Buonenotizie.

L'obiettivo del Corriere è quello di raccogliere il maggior numero di notizie positive per portare un messaggio positivo, cercando di dare meno spazio agli esempi negativi per accenturare invece il valore delle buone pratiche. Schiavi infatti sottolinea che:
Ci sono in Italia ogni giorno tanti esempi di altruismo e generosità che non compaiono nelle cronache dei giornali o nei siti web: nel mare della crisi si legge soprattutto di drammi e di buchi di bilancio. Abbiamo bisogno di fiducia e di riconoscerci in qualcosa che dia qualche speranza: oltre al buio c'è anche qualche luce. 
Questa iniziativa è indubbiamente condivisibile, anche perché da quando, per lavoro, passo ogni mattina a leggere più giornali, mi ritrovo già verso le 10 con uno spirito adombrato dall'ansia per la crisi economica e la decadenza politica che-se-va-avanti-così-finiremo-come-la-Grecia, dall'angoscia legata alle notizie di cronaca che parlano sempre di omicidi, suicidi, incidenti, drammi e tragedie... e dalla depressione dovuta alla consapevolezza sempre più crescente che la cultura, l'arte e qualunque cosa bella ha sempre meno spazio nelle menti e nei cuori di chi abita in questo Paese.

In sostanza, l'eco di una buona notizia o di una bella iniziativa è come aria fresca nella fitta oscurità che pervade l'informazione giornalistica, dove alla croncana nera si sostituisce troppo spesso la cronaca rosa piuttosto che una notizia positiva.

Vero è che questa decisione presa dal Corriere risveglia in me uno dei ricordi legati al mio attivismo in AmnestyEDU, sezione di Amnesty International, a Milano. In una scuola media avevamo trovato un gruppo di allievi molto promettenti e una professoressa che si era lasciata coinvolgere molto dalla nostra attività. Concluso l'incontro con l'ultimo laboratorio avevo preso in disparte la professoressa e le avevo regalato la mia copia (stampata malamente ma almeno ecofriendly) del testo Attività introduttive e giochi di ruolo all'interno del Percorso didattico contro la discriminazione pensato proprio per la scuola secondaria di primo grado. Le avevo consigliato alcuni laboratori e in particolare il quarto e ultimo laboratorio della sezione Sviluppare l'empatia, che, guarda caso, si chiama proprio Buone notizie. Lo riporto di seguito:
I giornali sono soliti enfatizzare notizie di crimini, ingiustizie e altri fatti che ci creano la
sensazione desolante di un mondo in cui nessuno si interessa o si cura degli altri. Questa
attività vuole far capire ai ragazzi che esistono modi diversi di relazionare con gli altri e una
società in cui “io mi prendo cura” è possibile.
Tempo: 30 minuti
Materiali: Articoli di giornale; Cartellone
Preparazione: La preparazione richiede un impegno di parecchie settimane. I ragazzi dovranno infatti raccogliere articoli da giornali o on-line in cui si raccontino buone notizie: es. il ritrovamento e larestituzione di oggetti di valore, l’impegno di singoli o di associazioni per il proprio quartiere,la propria città ecc.

Svolgimento:
1. I ragazzi incollano su un cartellone da appendere in classe gli articoli che hanno raccolto.
2. Gli articoli sono letti e commentati. Si apre poi una discussione aiutandosi con le domande che seguono:
a. Chi sono i protagonisti degli articoli?
b. È possibile o è difficile agire come loro? Perché?
3. I ragazzi possono continuare a raccogliere le “buone notizie” e riferirle di tanto in tanto ai
compagni
Ancora oggi mi chiedo se quella professoressa abbia seguito il mio suggerimento e iniziato un percorso di questo tipo con i suoi allievi rappresentando, insieme a molte altre, una di quelle buone pratiche che il Corriere potrebbe raccontare nella sua nuova rubrica.

Non sapendo effettivamente come sia andata, mi piace pensare che la professoressa lo abbia fatto.

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Anche su Thema.

lunedì 8 aprile 2013

Fuga di cervelli: trasferirsi all'estero è un destino?

 

Sul Corriere della Sera ho letto la lettera di un architetto italiano che dal 1995 vive a Berlino e non riesco proprio a togliermela dalla testa.

Pietro Balp racconta la sua esperienza di vita in Germania mettendo in evidenza aspetti che nella nostra quotidianità italiana sono lontani anni luce:
Da sette anni circa ho fondato uno studio di architettura con un collega tedesco. Con noi, lavorano dieci persone. Le loro età vanno dai 24 ai 35 anni. Nessuno è stagista, né ha mai lavorato gratis. Nessuno di loro ha dovuto aprire una partita Iva per poter lavorare.
Già solo per questo motivo Pietro Balp ha tutto il diritto di scrivere che "dal punto di vista della cultura del lavoro tra Italia e Germania c'è un abisso, indipendentemente dalla crisi"

A questa frase egli aggiunge poi significativamente:
La mia compagna non ha dovuto sacrificare la sua carriera per nostra figlia Nina, che da quando ha dieci mesi frequenta un asilo nido pubblico.

Ora, è evidente che ciò che scrive il signor Balp non è particolarmente nuovo, nel senso che è noto che pur avendo l'Italia un debito pubblico molto alto, la spesa per il welfare è inferiore rispetto a quella di Paesi come la Francia o la Germania. Quello che mi stupisce è proprio che a leggere queste testimonianze ci si stupisca ancora. Continuo a chiedermi perché cose apparentemente tanto necessarie, come gli asili nido e una determinata concezione esistenziale in cui alla prestazione lavorativa corrisponde uno stipendio, siano così lontane dal nostro modo di vivere. È frustrante sapere che per ottenere certi servizi ed una determinata qualità di vita sembra che non si possa fare altro che rassegnarsi e trasferirsi all'estero.

Ma forse è il destino di noi Italiani quello di essere un popolo di migranti. È nel sangue dei nostri avi, ormai naturalizzati americani, francesi o tedeschi, la voglia di spostarsi per cercare una prospettiva migliore. L'unica differenza rispetto a quelli che negli anni passati venivano semplicemente definiti migranti è nel modo in cui vengono denominati, perché ora che noi Italiani siamo bene o male tutti istruiti questi spostamenti non li chiamiamo più emigrazione, ma fuga di cervelli.


lunedì 25 marzo 2013

"Le occasioni perse che continuano a ossessionarci": la metafora dell'albero



Stamattina ho letto su La Repubblica un interessante articolo intitolato Maledette occasioni perdute ecco perché ci ossessionano di Gabriele Romagnoli.

L'incipit dell'articolo è il seguente:

TU VIVI in compagnia dei fantasmi di te stesso. Almeno una volta al giorno ripensi al provino che superasti con il Milan, a tuo padre che, sulla strada di casa, ti disse di rinunciare, si trattava di un'illusione, alla testa che hai chinato. E ti immagini mentre alzavi la Coppa ad Atene, invece.
Romagnoli racconta, sfruttando anche la voce del famoso psicologo inglese Adam Phillips, quello che è il dramma della vita di ognuno: il rapporto che si ha nel proprio intimo con il rimpianto di una vita diversa che non si ha avuto l'occasione di vivere, ma che rimane come incastonata nella propria memoria quotidiana, come un "ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico...", come direbbe Piero, protagonista di Ovosodo.

La vita che avremmo voluto vivere e che non abbiamo avuto la possibilità di realizzare allora rimane lì, come una vita parallela, un'ombra sempre capace di ossessionarci e che tendiamo a proiettare su coloro che sembrano viverla o sui figli, eterne vittime dei desideri non assecondati e dei risultati non raggiunti.

Queste riflessioni hanno risvegliato in me un ricordo che porta con sé un'immagine abbastanza ricorrente in questa fase della mia vita: l'immagine dell'albero in inverno, in cui la carenza di foglie ne mette in risalto le ramificazioni, per cui man mano che si sale partendo dal tronco, uno e solido, i rami si dividono in un numero sempre maggiore di percorsi che si fanno via via più sottili e, all'apparenza, più fragili.

Ho scritto di "un ricordo", perché questa figura non è un frutto generico dei miei pensieri, ma il riemergere di una mattinata di lezioni di diversi anni fa (ancora ero in triennale) e, in particolare, alla spiegazione che il nostro professore ci diede della libertà in Heidegger

Metaforicamente parlando la struttura della libertà secondo il filosofo tedesco, rispecchia quella dell'albero. Ognuno è gettato (il concetto della Geworfenheit) in una realtà che non ha scelto e della quale acquisisce i fondamenti e i caratteri, così come le radici dell'albero succhiano il loro nutrimento dalla terra. Si cresce in questo mondo e se ne apprendono costumi e abitudini, modi di pensare e di vivere, fino a quando, con i mezzi che si hanno (il proprio tronco) ci si trova a dover prendere delle decisioni sulla propria esistenza. Da queste scelte nascono i primi rami, che sono i più spessi e i più forti perché le decisioni prese portano a percorrere una determinata strada esistenziale piuttosto che altre. 

Intraprendere un certo percorso porta con sé però ancora la necessità di fare nuove scelte, che non sono nient'altro che la conseguenza di quelle precedenti e, quindi, si inseriscono come nuovi rami su quelli più forti. Di decisione in decisione, si sviluppano le ramificazioni dell'albero, mentre i rami si assottigliano perché le scelte sono sempre più incanalate e direzionate, sempre più definite dal passaggio precedente, sempre meno libere di intraprendere una nuova direzione, di cambiare completamente strada.

Le occasioni perdute si trovano nelle ramificazioni scartate, nei rami più robusti che sono stati messi da parte in favore di altri. Appartenendo allo stesso albero i rami rimangono lì, accanto a noi e ai nostri percorsi, come un perenne e molteplice monito di quello che non siamo stati ma saremmo potuti essere, nel bene e nel male.

Eliminare l'ossessione per un sogno rimasto nel cassetto, per un sacrificio fatto rinunciando ai propri desideri, per uno stile di vita solo sfiorato o vagheggiato, non è un compito semplice e ognuno è chiamato a convivere con i propri rimpianti. Non resta che cercare di essere il più consapevoli possibile nel prendere le proprie decisioni e cercare nel presente le ineliminabili radici per un nuovo futuro, magari anche un po' diverso da quello che ci eravamo immaginati.


giovedì 21 marzo 2013

Buon compleanno Alda!



Mi ricordo quando sono andata a trovarti nella tua casa museo in via Magolfa e ti ho riscoperta nelle tracce che hai lasciato sui tuoi oggetti.
Mi sono sentita vicina a te ascoltando le tue poesie musicate da Giovanni Nuti e cantate da Milva e mi sono librata con te nel cielo come un Albatros.
Ho letto del tuo amore profondo e del tuo dolore altrettanto profondo interrogandomi sull'origine della tua forza e della tua debolezza.
Mi sono commossa di fronte alla sensibilità e alla purezza delle tue parole, capaci sempre di toccare corde nascoste e spesso fragili.
Mi hai fatto riflettere sul senso della pazzia e della depressione che, vissuti in un tempo in cui ancora esistevano i manicomi, hanno segnato la tua vita che è diventata una testimonianza di un possibile incontro tra arte e follia.
Per tutto questo ti ringrazio Alda Merini, tu che sei nata il primo giorno di primavera e che hai vissuto sempre nel segno dell'amore, sbocciando come un fiore a nuova vita ogni giorno.


sabato 9 marzo 2013

Davanti alla legge: un atto di responsabilità


Foto di Hect

Citazione da sapere per essere colti: dopo anni di attesa davanti alla porta della legge l’uomo di campagna poco prima di morire fa un’ultima domanda al guardiano: 
«Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l'uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?» Il guardiano si accorge che l'uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l'ingresso. E adesso vado e la chiudo»

Siamo come travolti da alte onde di un mare in tempesta e non vediamo altro che il bianco di quella spuma che ci riempie la bocca nel momento in cui ci rendiamo conto che quando  la nostra passività si erge a pilastro della nostra vita ne siamo automaticamente tagliati fuori: il protagonista non siamo più noi, ma la nostra paura e la formalità. L’uomo di campagna decide di aspettare un permesso per tutta la vita, si fa schiavo di un desiderio che da solo pensa di non poter realizzare. In questo modo – ci lascia implicitamente intendere Kafka – muore nella disperazione e nella delusione di sé.

Ma quanto tutto questo è colpa dell’uomo? O meglio: quanto dipende dall’ingenuità? Quanto dalla (in)consapevolezza?

Innanzitutto è evidente che a noi uomini risulta facile perdere il dominio sulla propria realtà affidandosi alle scorciatoie, che nella maggior parte dei casi si rinsaldano nel luogo comune: “Anche se non faccio niente prima o poi qualcosa cambierà”. Eppure credere che le cose non dipendano direttamente da noi non è solo un atto di ingenuità – questa sarebbe solo una giustificazione – ma anche e soprattutto una difesa dalla prestazione, una parola che dal sesso al lavoro passando per la vita sentimentale mette sempre alle strette, allontana e disarma. Il rischio legato al senso della prestazione è però duplice: l’eccesso o l’abbandono. Così da un lato c’è l’atto iperbolico, più adatto ad un dio che ad un uomo (dio giustiziere in Elephant di Gus Van Sant). Dall’altro una strada che conduce alla solitudine e all’anonimato (della propria umanità in Quarto potere di Orson Welles). In entrambi i casi un’identità che si nasconde, o nell’estremizzazione o nel silenzio. 

Ma dov’è questa identità? E come scoprire in tempo qual è la sua strada di rivelazione (non vorremo fare la fine dell’uomo di campagna o di Kane!)?

In questo senso è illuminante un verso di Impressioni di settembre dei PFM: “Cosa sono adesso non lo so, sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”. Questo vuol dire che non importa non sapere qual è la via, non importa credere che ci saranno sempre mille domande, o che non ce ne saranno mai o mai abbastanza, non importa sentirsi a volte spaesati e soli nelle difficoltà della vita, ma quello che importa è cercare. Cercare una nuova opportunità di non rinunciare a se stessi proprio nella bellezza irripetibile di quel giorno che “come sempre sarà”.

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Direttamente da Luzer!

venerdì 8 marzo 2013

Festa della donna: il nostro potere contrattuale


Un anno fa l'8 marzo era per me un giovedì universitario vissuto in quel di Milano.

Mentre mi avviavo a lezione avevo incontrato in metropolitana molti venditori di mimose e mi ero ritrovata a pensare al senso di un evento simile in un periodo storico e politico come quello che stavo vivendo.

In Università avevo incontrato molte ragazze sulla mia strada, ragazze che studiavano e si impegnavano tanto e che avevano sicuramente molti sogni - come me del resto.

Ma vedere tutte quelle ragazze che si affacendavano dietro alle fotocopiatrici, che ripetevano assiduamente fuori dall'aula di un esame e che si affannavano cariche di libri non poteva eliminare dalla mia vista un quadro che portava con sé una chiara consapevolezza: l'affastellarsi di pensieri legati alla differenza in busta paga tra uomini e donne, alla maggiore difficoltà delle donne a raggiungere posizioni apicali e alla crescita della disoccupazione giovanile che trovava i suoi picchi proprio nel genere femminile, mi convincevano sempre di più che dietro la festa della donna, carica di significati di lotta di genere, si celasse un grave misfatto e un incompiuto quantomai ineludibile.

"Le donne sono portate a studiare materie umanistiche e prevalentemente orientate verso il sociale, tendenza che le conduce a fare lavori meno remunerativi": una delle magre spiegazioni che avevo trovato ad alcune delle differenze tra uomini e donne in ambito lavorativo.

In sostanza il fatto è che noi donne possediamo un minore potere contrattuale: capiterà che ci faremo una famiglia e allora dovremo restare a casa per gestirla, accadrà che qualche parente si ammali e che dovremo prendercene cura. Tutta una serie di situazioni che ricadono sulle nostre spalle e da cui sembra impossibile liberarsi, non, perlomeno, in un Paese che dà più importanza alla pressione fiscale e alla riduzione del debito pubblico, piuttosto che alle sue carenze di welfare. Però è chiaro: una donna a casa per gestire la famiglia è un lavoratore in meno, quindi un disoccupato in più o, ancora peggio, un neet in più, come piace definire oggi chi non ha occupazione e nemmeno la cerca così come non è in fase di formazione. 

Eppure questo è vero solo sulla carta. 

La donna che rimane a casa non è né un disoccupato né un neet, ma semplicemente colei che  supplisce a tutte quelle necessità di cura imprescindibili in ogni tempo e in ogni cultura: non si possono non crescere i bambini, non si può lasciare la casa allo scatafascio, non si possono lasciare gli anziani invecchiare da soli. Sempre le donne si sono occupate di questi aspetti della realtà e cambiare questa mentalità appare quasi impossibile e vale oggi ancora quello che si diceva un tempo: è una donna che tiene in mano le redini di una famiglia ed è lei che è capace di tenerla in piedi o di distruggerla.

Ma allora cosa ci rimane? Una triste alternativa tra lavoro e famiglia oppure uno strozzamento inevitabile nel tenere insieme le due cose?

Forse sì, forse no. Siamo ancora in tempo per cambiare, per crescere e per far presente quello che valiamo: il nostro potere contrattuale non è così basso come appare inizialmente.

Oggi godiamoci il nostro giorno, esigiamo le nostre mimose anche se per molte di noi sono un fiore insulso, ricordiamoci quello che siamo e quello che siamo in grado di fare. Lottiamo ogni giorno continuando a essere quello che siamo e a ricordare quello che siamo state, tramite anche la voce di donne grandi che a loro volta hanno combatutto per i propri ideali (come Pippa Bacca), oggi ci celebrano e lasciamoglielo fare: accogliamo questa festa con un sorriso e, dentro di noi, non smettiamo mai di sperare e, soprattutto, di lottare. 

martedì 19 febbraio 2013

Abito da sposa: il mio ricordo di Pippa Bacca



Non sono mai stata quel tipo di ragazza che sin da quando era piccola immagina il giorno del proprio matrimonio, sognando l'abito fantastico che indosserei, l'uomo perfetto pronto a legarsi a me per sempre o dove fare la lista di nozze. Tutt'al più oggi mi faccio qualche risata guardando quei programmi-reality dedicati alle spose super esigenti, le damigelle litigiose e i futuri mariti pressoché inesistenti.

Nella mia vita c'è solo un abito da sposa che mi è veramente rimasto impresso nella memoria, come se fosse scolpito nel granito. Sto parlando dell'abito di Pippa Bacca (Giuseppina Pasqualino di Marineo), artista milanese brutalmente assassinata dopo essere stata violentata il 20 marzo del 2008 in Turchia, proprio mentre indossava un abito da sposa.

Ricordo ancora quando diedero la notizia al telegiornale. Ammetto che, purtroppo, non la conoscevo come artista prima di quel tragico evento. Raccontarono che stava compiendo una performance artistica dal nome Spose in viaggio, che prevedeva di attraversare 11 Paesi in guerra in autostop vestita con un abito da sposa bianco per trasmettere un messaggio di pace. Dopo aver attraverato Slovenia, Croazia, Bosnia e Bulgaria, il suo viaggio, iniziato insieme a Silvia Moro, si è concluso in Turchia.

A casa la notizia di quella morte fu accolta con stupore, ma piuttosto freddamente. I commenti furono cinici: "Cosa si aspettava, di attraversare la Turchia in autostop e uscirne indenne?". Io non ero d'accordo: "E perché no?", mi ricordo di aver pensato.

Ma, purtroppo, alle volte la realtà non fa altro che verificare i pronostici negativi: e anche se Pippa Bacca era un'artista che stava compiendo un viaggio itinerante di speranza e fiducia vestita da sposa, ciò non toglie che fosse comunque una donna sola che chiedeva passaggi a sconosciuti in Turchia.

A noi donne hanno insegnato sin da ragazzine che certe cose non si possono fare, perché corriamo molti rischi in quanto donne e quindi non possiamo muoverci sempre e ovunque come vogliamo, e se lo facciamo, beh, dobbiamo mettere in conto che ci accadrà presumibilmente qualcosa di terribile. Quello che è successo a Pippa Bacca in una certa misura lo conferma, ma d'altra parte lo smentisce anche.

Il coraggio dimostrato da Pippa Bacca, il suo desiderio di portare un messaggio positivo e di pace in paesi teatro di guerra, ha riportato in vita un dibattito sul ruolo della donna che in Turchia viene spesso silenziato dai forti progressi economici di un Paese in crescita e che, sin dai tempi di Atatürk, si è nettamente distinto dalla storia degli altri paesi di matrice araba e musulmana.

Pippa Bacca ha intrapreso un percorso pericoloso che purtroppo è finito in tragedia, ma ha rischiato anche per tutte le donne che ogni istante in ogni parte del mondo sono sottomesse alla brutalità di uomini violenti e senza cuore. Il suo messaggio di pace e fiducia nel mondo, anche se percorso dalla guerra e dalla violenza, ha attraversato la sua morte e giunge a noi oggi come una speranza per un futuro diverso e migliore. 

L'unico modo per non perdere memoria di questa speranza è continuare a vivificare il ricordo. Una scelta che hanno fatto le donne di Natura Donna Impresa verso Expo 2015, che a quasi 5 anni dalla scomparsa di Pippa Bacca, hanno organizzato una Non sfilata di donne in abito da sposa che venerdì 22 febbraio a Milano renderà omaggio all'artista e al suo ultimo grande viaggio. E sapete qual è la cosa più bella di questo evento? Che possiamo partecipare tutte e, anche se non corriamo alcun rischio così come Pippa Bacca, rendere omaggio alla sua vita, piuttosto che al tragico ricordo della sua morte.

giovedì 14 febbraio 2013

San Valentino: c'è davvero bisogno di un giorno programmato per amarsi?



Devo ammettere che non sono mai stata una grande fan delle ricorrenze imposte, se non fosse che spesso, perlomeno, coincidono con le vacanze. Quando si avvicina il Natale, per esempio, nel momento in cui vedo come la città si riempie di lucine sin da ottobre trasformandosi in una sorta di paccottiglia colorata e iridescente, mi sale un nervoso che metà basta. Per non parlare dei triti e ritriti film di Natale pieni di di cliché scadenti che hanno solo l'obiettivo di alimentare il consumismo attorno a un evento che sembra aver perso la sua valenza religiosa in favore di un buonismo ipocrita .

Per motivi più o meno simili non sono un'estimatrice nemmeno di San Valentino, e questo sin dal giorno in cui alle elementari i bambini più grandi mi insegnarono il noto ritornello: "San Valentino, la festa di ogni cretino che invece di essere amato viene soltanto fregato". Anche se ai tempi non ne comprendevo il vero senso, era una filastrocca che mi faceva ridere. Più avanti è solo diventato un banale Leitmotiv di richiamo annuale che aiutava a porre l'accento sulla mia indifferenza verso una festa che mi ha sempre messo tristezza. Quello che mi indisponeva verso San Valentino è che mi è sempre venuto spontaneo domandarmi: c'è davvero bisogno di un giorno programmato per amarsi, farsi magari un regalo o uscire a cena o fare altro per spezzare la routine?

Per anni, quindi, ho pensato che San Valentino sostanzialmente fosse una ricorrenza inutile e mi sono sempre più vista come una persona da San Faustino, non tanto perché è la festa dei single (che poi, a dirla tutta, è la festa dei non ancora innamorati), ma più che altro perché essendo bresciana è sicuramente un giorno più divertente: innanzitutto perché è vacanza, in secondo luogo perché c'è la fiera, un bagno di folla e ninnoli che amo profondamente.

La verità è però che poi la vita molto spesso ti porta a cambiare prospettiva e modo di vedere le cose, spesso anche quasi senza riuscire ad accorgersene subito. Per quanto riguarda me, mi sono resa conto che da quando sto con una persona davvero speciale, che mi ha fatto imparare cosa significhi amare (di certo non semplici bigliettini a forma di cuore e mazzi di rose, anche se, di certo, non si disdegnano mai), il mio modo di vedere San Valentino e ricorrenze simili è cambiato completamente.

Me ne sono resa conto nel mio ultimo viaggio a Parigi in cui sono andata a trovare il mio bello che ormai vive e lavora lì (eh sì, lui è proprio un ottimo esempio di cervello in fuga) durante una chiacchierata con il suo coinquilino francese. Ero salita nella città della luce anche per festeggiare il nostro quarto anniversario e il suddetto coinquilino non riusciva a capire che senso avesse uscire a cena per tale occasione o farsi addirittura dei regali, perché alla fine ci si ama sempre tutti i giorni e non servono momenti definiti per stare insieme. Insomma, ha posto le stesse obiezioni che pongo io di solito di fronte a ricorrenze come San Valentino. La cosa che a questo punto mi ha fatto capire il mio cambiamento è che di fronte a un discorso simile invece di dargli ragione ho sostenuto il valore della ricorrenza. 

La ricorrenza, che venga da fuori o che abbia origine dal proprio vissuto, infatti, non è nient'altro che una scusa per stare insieme. Una scusa per farsi un regalo una volta di più, per spendere un po' di soldi per uscire a cena (non siamo tutti milionari del resto), per coccolarsi in due e festeggiare il proprio amarsi dedicandosi del tempo ripulito da tutte le difficoltà del quotidiano, qualunque esse siano.


Ci sono periodi in cui non si fa altro che correre dietro agli impegni rischiando di venire risucchiati nel marasma del tran tran quotidiano e se in tutto questo l’amore di un’altra persona è un grande sostengo, è anche giusto che all’amore stesso venga dedicata una festa ad hoc. In questa prospettiva una ricorrenza come San Valentino non è tanto importante perché si deve ricevere un regalo o andare fuori a cena, ma perché è una scusa per prendersi veramente una pausa dal mondo e stare semplicemente insieme dedicandosi all'amore che si prova l'uno per l'altra, magari anche solo con una bottiglia di vino e ancora tanta voglia di ascoltarsi l'un l'altro o, semplicemente, di tenersi per mano.