sabato 20 luglio 2013

Marie Laurencin: una vita in rosa e nero

L'ultima volta che sono stata a Parigi ho avuto occasione di vedere un museo davvero molto bello, il Marmottan. Questo museo, oltre a comprendere nella sua collezione bellissime opere di Claude Monet e Berthe Morisot, ospitava nel periodo in cui l'ho visitato una mostra stupenda dedicata a Marie Laurencin, pittrice di cui mi sono innamorata follemente.


Sono stata rapita dalle figure quasi diafane realizzate dall'artista. Figure chiare e luminose, candide come fantasmi di un'altra epoca e arricchite da colori pastello e sguardi profondi, con quegli occhi neri che risaltano quasi come unico dettaglio perfettamente delineato e che permettono a ogni opera di richiamarsi l'una con l'altra.

La liseuse (1913)
Le uniche opere che avevo visto della Laurencin erano al museo dell'Orangerie (presente il famoso ritratto di Coco Chanel? Ve lo metto sotto) e mi avevano già colpito molto per la loro delicatezza e sensibilità ai colori e alle forme. Ciò non toglie che quest'artista, così come molte altre artiste donne di quegli anni, sia pressoché sconosciuta o, perlomeno, quasi totalmente ignorata, tanto che la maggior parte delle sue opere si trovano a Tokyo. 


Portrait de Mademoiselle Chanel (1923)
Questo stato di cose fa sì che anche la storia della stessa Marie Laurencin sia ignota ai più, pur essendo davvero molto interessante. Come, del resto, lo sono tutte le storie degli artisti che hanno vissuto durante gli anni folli

Autoportrait (1905)
Marie Laurencin (1883-1956), detta "Coco", cresce come quasi-paria, in quanto figlia di una ragazza madre (scoprirà a trent'anni chi è effettivamente suo padre, dopo che lui era morto da molto tempo) e sin da giovane, pur contro il volere della madre, si dedica alla pittura iniziando con un corso di pittura su porcellana (così come aveva iniziato anche Renoir!).

Apollinaire et ses amis (1909)
All'accademia Fernand Humbert, il compagno di studi Georges Braque la convince a lasciare la porcellana per la pittura e da questo momento Marie Laurencin entra nell'ambiente dell'avanguardia iniziando a frequentare artisti del calibro di Juan Gris, Fernand Léger, Pablo Picasso e Guillame Apollinaire. Da questo momento la sua carriera e la sua fama sono in ascesa e "Coco" diviene un personaggio fondamentale degli ambienti sia di Montmartre che di Montparnasse.


Les deux espagnoles (1915)
Il successo di Marie Laurencin dura fino al 1929, anno della crisi economica che le fa perdere i suoi ricchi clienti e la costringe a insegnare in un'accademia d'arte. Da questo momento in poi l'arte di Laurencin entra in una fase di declino anche a causa della sua forte miopia che le rende difficile dipingere. 

Diane (1921)
L'arte di Laurencin è un viaggio in un mondo affascinante e dalle forti connotazioni femminili. La sua arte è estremamente personale e traduce perfettamente lo spirito della sua epoca, rappresentata con opere ricche di poesia e fascino, proprio come sono stati gli anni folli.

La danse (1919)
Marie Laurencin è una figura controcorrente sia per la sua arte che per la sua vita. Donna che si credeva brutta e che amava le donne, Laurencin fece parte di un gruppo di lesbiche molto importanti dal punto di vista artistico. di questo gruppo facevano infatti parte anche Gertrude Stein, sua prima committente, e Alice B. Toklas, principessa di Polignac. Inoltre, anche durante il suo breve matrimonio (1914-1921) con  il barone tedesco Otto van Wätjen, intrattenne un'abbondante corrispondenza amorosa con una donna, Nicole Groult.


La princesse de Clèves (1940-41)
Marie Laurencin viene ricordata oggi non solo come pittrice, ma anche come decoratrice e costumista (collaborò alla realizzazione dei costumi per i balletti russi). Dalle descrizioni di Picasso e Apollinaire durante gli anni folli emerge un carattere gaio e allegro, da "eterna bambina", un carattere grazie al quale la "fantastica e affascinante Coco", amica di pittori e scrittori, sedusse tutti, tanto gli uomini quanto le donne.

Trois jeunes femmes (1953)

sabato 6 luglio 2013

Essere milanese: cosa significa oggi?

"Smell map of Milan" di Olivia Alice

Negli anni che ho trascorso a Milano ho imparato un po' a conoscerla e ho compreso che la parola chiave di questa città è una e molto semplice: trasformazione

Milano è una città che non solo non sta mai ferma, ma che sopravvive proprio grazie a questo continuo movimento. Un movimento che, al di là del "produrre produrre produrre" che spesso si rivela fine a se stesso, germoglia nei terreni fertili di coloro che in questa città vedono l'occasione di esprimere se stessi in uno spazio che non rigetta il diverso, ma lo interiorizza e lo riqualifica con il marchio della milanesità.

La milanesitàUn concetto forse arduo da spiegare oggi, in un'epoca in cui i confini tra le culture rispecchiano quelli tra i territori: sempre più labili. Eppure è una parola che non è ancora stata esautorata dallo scorrere del tempo e degli stranieri che da secoli calpestano i suoi vicoli e le sue piazze. Rimane tuttora un'idea che attraversa questo termine e che denota qualcosa di netto, anche se forse non la si può più dire fino in fondo, o meglio, forse non si lascia più riempire da stereotipi ultimativi. 

Il passato insegna che il milanese è quello operoso, che punta all'affare ma con lungimiranza e tenendo sempre i piedi per terra. Ma Milano oggi è anche città di creativi e idealisti che raccontano uno stile di vita fatto di alacre festività, tra aperitivi, vernissage e serate in discoteca. Uno stile di vista non meno milanese del primo, ma che con esso non coincide. In quest'ottica è come se l'essere milanese si fosse fluidificato in un'identità più ampia, un'identità che preferisce fare spazio dentro di sé piuttosto che escludere a priori.


Ho avuto conferma di questa sensazione in una recente intervista che ho fatto a Giorgio Guaiti, autore del libro La vita è una schiscetta. Avventure di ogni giorno raccontate anche in milanese. Nel leggere il libro da alcuni racconti sembra emergere un’identità milanese che trova le sue radici nel passato, ma che, del resto, non esclude chi a Milano arriva in cerca di nuove opportunità.

Giorgio Guaiti mi ha spiegato che non è facile chiarire cosa sia la milanesità perché è difficile innanzitutto dire chi sono i milanesi per la mescolanza di popoli iniziata sin dall’epoca dei Comuni, e forse anche da prima. Probabilmente, però, è proprio in questa difficoltà che si trova la specificità che fa la ricchezza di Milano e che, nei secoli, l'ha resa quello che è. Infatti, come mi ha detto Guaiti:
Questa città accoglie migliaia e migliaia di “forestieri” che però finiscono per inserirsi nella città e per adeguarsi ai suoi ritmi di vita e al suo spirito. Forse, in fondo, il senso vero della milanesità è proprio questo: saper accogliere e dare un’opportunità a chi è disposto a lavorare in questa città e per questa città. Fino ad ora ha funzionato con gente che arrivava da altre zone della Lombardia, da altre regioni, da altre nazioni. Sarà interessante vedere se la ricetta funzionerà anche con chi oggi arriva da altre, anche lontanissime, parti del mondo. È questa la scommessa sul futuro di Milano.
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