Che rabbia, che tristezza.
Sarà che sono stata fortunata, sarà che sono
cresciuta in un ambiente che dopo oggi mi appare ancora più elitario, sarà che
i miei genitori – nonostante tutto – mi hanno sempre sostenuta e insegnato
tutto quello che sanno (e sanno tanto), ma dopo un’esperienza recente mi porto
dentro una nuova amarezza nel cuore, un'amarezza che credo nei prossimi mesi
si acutizzerà costantemente.
Qualche giorno fa sono andata in un istituto professionale con
Amnesty EDU, una sezione di Amnesty
International che ha come obiettivo la formazione di studenti di tutte le
età (scuole elementari, medie e superiori) e di tutte le tipologie di scuole
(licei, tecnici, professionali) circa il tema dei diritti umani. Il fine di
Amnesty è quello di sensibilizzare bambini e ragazzi a quei problemi e temi che
in una società multiculturale e complessa come la nostra affrontano tutti i
giorni, ma che spesso non trovano purtroppo un’adeguata trattazione nelle aule
scolastiche.
Con questo progetto e con questi obiettivi siamo andati a
parlare alle prime classi di un istituto professionale che si trova nella
provincia di Milano. L’ambiente era degradante: i resti delle merende erano
ovunque, le aule erano tristi e arricchite solo da pochi cartelloni realizzati
per la scuola e qualche divo del cinema, i professori abituati a comunicare
solo con minacce ed urla.
La presentazione che realizziamo per Amnesty è più che altro un dialogo
fatto di continue domande volte a stimolare la comunicazione e a mantenere
sveglio l’interesse degli studenti. Nello svolgersi di questo percorso
interattivo si sono manifestati diversi momenti piuttosto sconfortanti. Gli
studenti invitati a leggere alcune parti si inceppavano nelle parole, non
comprendevano il senso delle frasi. Le risposte alle domande erano
sconclusionate, dettate poco dalla logica, ma più dal desiderio di far sentire
la propria voce. La soglia di attenzione era al livello di quella di un pesce
rosso e la possibilità di mantenerla più alta era decisamente scarsa,
nonostante l’utilizzo di diverse tecniche di comunicazione molto rodate. Della
capacità critica che hanno dimostrato invece meglio proprio non parlarne.
Eppure non è tutto questo ciò che mi ha sconvolta, bensì quello
che più mi ha stupita è stato il fatto che in quella scuola ho trovato tanta rassegnazione. Quello che mi ha lasciata
senza parole – me, figlia di laureati, proveniente da un liceo scientifico e prossima
alla laurea magistrale – è stata l’amara
consapevolezza dei ragazzi circa la propria ignoranza, il loro essere senza possibilità
di cambiare le cose, senza chances a
causa proprio del livello della scuola che frequentano, ma ancora di più senza futuro
e senza libertà di scelta.
“Ma perché?!” avrei
voluto gridare loro “perché questa
rassegnazione? Voi che siete così giovani? Il futuro del domani… Voi che siete
solo all’inizio del vostro percorso, voi che ancora tutto potete scegliere,
inventare, scoprire, vincere, …”.
Ma il fiato per queste parole mi è rimasto in gola.
Ho scelto infatti la via di Amnesty, ho seguito i suoi principi
e ho deciso di informarli il meglio
possibile su quei diritti che li riguardano – che ci riguardano tutti – e di
cui forse non avrebbero più avuto occasione di sentir parlare.
Allora gli ho raccontato la storia della Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, nati dopo la devastazione della Seconda Guerra
Mondiale dal desiderio di cambiare dell’uomo, di porre delle solide basi per impedire
quei gesti orrendi legati alla guerra. Gli ho spiegato che quello del lavoro è
un loro diritto non meno del diritto al riposo. Ho cercato di fargli capire che
il diritto all’istruzione non è rispettato ovunque, perché molti bambini e ragazzi
nel mondo non possono studiare a causa della loro povertà[1].
In conclusione, non so però se i miei discorsi possano aver
sortito anche solo un minimo effetto; di certo io mi sono impegnata al massimo,
ma purtroppo la mia ha rappresentato solo una piccola goccia nel mare.
Dovremmo piuttosto tutti noi – noi privilegiati – porci una
domanda, ovvero: perché permettiamo che ragazzi così giovani che provengono da
situazioni familiari e ambientali evidentemente problematiche abbiano una così scarsa
considerazione di sé e di tutto quello che fanno e faranno?
Se non ci impegniamo in
primis per far sì che tutti, ma proprio tutti
(e qui intendo soprattutto coloro che si trovano in situazioni di disagio), in
Italia portino in sé delle speranze positive per il domani che si traducano poi
in un futuro altrettanto positivo non possiamo lasciare che si sviluppi una
società classista e elitista che permetta tutto questo. Dobbiamo batterci perché tutti si rendano conto di possedere gli
stessi diritti e le stesse possibilità degli altri, lo stesso grado di libertà di esprimersi, pensare
ed informarsi.
E, badiamo bene, siamo noi che dobbiamo fare la differenza, perché
nessuno lo farà per noi.
[1]
Quest’ultima sollecitazione aiutata da un video
molto forte ha portato alla seguente conclusione da parte di alcuni dei ragazzi:
“Noi abbiamo la possibilità di studiare
siamo dei privilegiati, ma non lo capiamo”.
Il video di cui parlo narra la storia di una bambina marocchina che ha il grande desiderio di diventare medico e
pertanto frequenta la scuola con impegno e dedizione. Il filmato si
incentra sulla decisione dei suoi genitori di tenerla a casa da scuola perché
la madre ha bisogno di aiuto in casa. Questo video colpisce molto i ragazzi,
pur essendo in arabo sottotitolato in italiano, ed è un’ottima fonte per
diversi temi di discussione (diritto all’istruzione, situazione delle donne,
tema della povertà, …).
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